News

L’avventura dell’accoglienza oggi. L’incontro del 9 novembre a Rovereto

“L’avventura dell’accoglienza oggi, recuperando il sì dell’inizio. Dialogo tra le esperienze delle famiglie”: la testimonianza di Carlo all’incontro del 9 novembre.

Perché accogliere? Perché aprire le porte della propria casa? Da dove nasce, cosa lo rende possibile? Il sì dell’inizio era consapevole? Vale ancora oggi per me? Pensando a questa sera mi sono reso conto di quanto è accaduto e sta accadendo fra le nostre famiglie, la ricchezza di vita dell’associazione, gli strumenti (dispense, incontri nazionali, …) che tuttavia spesso rischiamo di non trattenere.

Ho ripreso in mano il documento dell’incontro con Adele Tellarini dello scorso marzo e mi sono reso conto che il confronto sull’esperienza è proprio centrale e vitale, cito solo l’introduzione di Mazzi: “La modalità con cui siamo insieme è sempre quella di un sostegno reciproco. Il Papa diceva che “Non si impara a sperare da soli. La speranza per alimentarsi ha bisogno di un corpo, nel quale le varie membra si sostengano e si alimentino a vicenda”.

Inoltre Adele nel testo Il miracolo dell’ospitalità riprendeva un passaggio: “L’affezione al destino, all’essere poi si dimostra nella calma affezione alle circostanze”. Quella circostanza è per me e per te. Il problema è starci dentro una pace. La risposta non sei tu, passa anche da te, ma non sei tu.

Aprire le porte è sempre un imprevisto positivo, un po’ di mistero che si affaccia e scuote la mia inerzia, la pigrizia, rimette in moto perché fa gustare un di più. Incide sul mio modo di concepirmi, mi permette di non fermarmi su di me, di vedere le cose e le persone con uno sguardo più grande. Questo ancora oggi è in grado di mettere in moto lo stupore.

Eppure mi rendo conto che c’è sempre il rischio della superficialità, della scontatezza, dell’autoreferenzialità “tomba dello stupore” che è sempre in agguato. Questi aspetti possono essere vinti nella condivisione, confronto e aiuto a giudicare quello che accade, con chi sta vivendo questa esperienza di apertura, di libertà. La sfida quotidiana del nostro ragazzo, adulto che rimane “giovane”, mette costantemente a nudo le mie fragilità e la mia reattività, l’idea di bene su di lui. Questo conferma la mia inadeguatezza, ma allo stesso tempo mi fa fare esperienza che un Altro opera e usa tutto, anche e soprattutto questo rapporto, per ricordarmi che la mia vita, ultimamente, non la sostengo io. E tanto meno quella di mio figlio.

Ogni volta che guardo la storia della mia famiglia, dentro l’esperienza dell’accoglienza, non posso che essere grato. Riconosco che accogliere la diversità dell’altro è la via più semplice ed efficace per recuperare la libertà e la serenità, in famiglia, con gli amici e sul lavoro. A volte la fragilità mi obbliga ad andare alla radice del rapporto e chiedermi: cosa mi corrisponde? La performance o la domanda struggente di felicità che portiamo nel cuore?