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Nel ventre di mia mamma indiana e nel cuore dei miei genitori adottivi

Incontro con Sangeetha Bonaiti, figlia adottiva e giovane mamma con il Gruppo Adozione di Milano (il 24.2). Alcuni appunti della sua grande testimonianza.

Il rapporto con la mia storia di adozione? Alle elementari vivevo in un ambiente piccolo, un paese, e tutti mi conoscevano. Poi, alle medie in città, sono emersi dei problemi per il colore della mia pelle. Così ho iniziato anche io a non accettarmi. In queste difficoltà ho potuto appoggiarmi alla vicinanza dei miei genitori e di alcune amiche che erano orgogliose di avermi tra le loro amicizie. Allora non avevo domande particolari sull’adozione ma tante sulle mie diversità. Qualcuno mai mi vorrà così come sono? E’ stata questa una domanda rimasta aperta per tanti anni pur insieme a tante cose buone capitate. La diversità è la prima vera prova che mi sono trovata addosso.

Nell’adolescenza è poi venuta fuori la domanda affettiva: io ho bisogno di essere amata così come sono. Mi innamoravo facilmente di ragazzi che mi dimostravano stima ed attenzione. Seguivo i passi indicati dai miei genitori con azioni di facciata ma, la proposta di vita che avevo davanti, non era per me sufficiente e non mi bastava. Viaggiavo in posti bellissimi con i miei genitori con il muso, senza godermi quello che avevo davanti.

In quel periodo ho avuto una occasione: sono uscita con alcuni amici dei miei genitori ed ho maturato, nel dialogo con loro, alcuni giudizi in un rapporto di stima ed amicizia. Sino ad arrivare ad un punto di svolta: una brutta litigata con i miei genitori. Lì ho preso la mia decisione: li ho adottati anche io, li ho considerati una volta per sempre come miei genitori. Ho rivisto tutto il loro amore in tutti gli anni passati insieme e questo è stato un punto di svolta. Io vi scelgo e da qua in poi sarete per sempre i miei genitori. Ed ho pensato di non essere più solo quella che riceveva ma quella che poteva anche restituire.

La vita è andata avanti, mi sono sposata. Prima di diventare mamma non avevo guardato l’inizio della mia storia, i miei primi 2 anni di vita, quelli in istituto in India. Con il primo figlio mi sono fatta delle domande molto fisiche sulla gravidanza. Con il terzo figlio, e la provocazione di alcuni fatti capitati, le domande su di me si risvegliate. Così si è riaperta una porta di cui avevo paura: l’abbandono che avevo messo da parte perché doloroso da affrontare. Sono stata arrabbiata con Dio e gli dicevo: ‘Tu prometti di non abbandonare ma io sono stata abbandonata. Non è vero che le promesse vengono mantenute’. Negando questo pezzo di me, doloroso e difficile, inevitabilmente ho negato la storia. Ho giustificato tutto per anni dicendo a me stessa che mio padre non poteva fare altrimenti. Mi facevo bastare questo per non entrare dentro alla parola abbandono.

Poi ad un certo punto, questi elementi – essere madre, prendere coscienza della nostalgia verso la mia mamma indiana, pormi domande nuove da bambina ad alta voce attraverso la scrittura condivisa – non mi bastavano più e mi sono presa sul serio con tutta la drammaticità che vivevo.

Io ho preso forma nel ventre di mia mamma indiana e nel cuore di mia mamma Miriam e mio papà Tino. L’inquietudine interiore è mia fedele compagna di viaggio perché a certe domande non si possono trovare risposte che bastano. Ho trovato la mia certezza anche sull’abbandono, come possibilità di bene per me, ed ora sto organizzando il mio viaggio in India per incontrare quella ‘Sangheeta di pochi mesi’ che è rimasta là e che voglio incontrare.