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“Tu, sorpresa alla mia vita. Nell’accoglienza l’audacia di un incontro” – Lettera Periodica n. 110 – Dicembre 2020
«Sai mamma, la mia vita è spaziosa!»
«Vuoi dire spaziale!?»
«No! Spaziosa!»
«Cosa intendi dire?», chiede Giulia a suo figlio.
«Che nel mio cuore c’è posto per tutti», risponde Luca.
Luca soffre di una tetraparesi. Ha otto anni e da quattro è in affido a casa di Giulia ed Enea. Tempo fa, nello svolgere un compito in cui gli viene chiesto di esprimere un pensiero da inserire in un diario, scrive: «Io sono nato e sono amato». La semplicità di questo breve racconto, bene esprime il tema che ci siamo dati come aiuto per il cammino di quest’anno e che questa Lettera Periodica vuole documentare: Tu, sorpresa alla mia vita. Nell’accoglienza l’audacia di un incontro.
È lo stupore di essere oggetto di un amore che ridesta la coscienza di un bambino, che allarga il cuore e rende capaci di incontrare e abbracciare chiunque. Per Luca, per i suoi genitori affidatari e per tutti noi.
Un “tu” che ama e che svela quel “Tu” che come una sorpresa incontra la nostra vita. È un riconoscimento che attraversa tutta la drammaticità e le contraddizioni che spesso le esperienze dei nostri figli accolti manifestano. E che chiede una compagnia umana, concreta, che possa sorreggere la portata di tale sfida.
Di tutto questo abbiamo dialogato lo scorso novembre con i responsabili della nostra Associazione, collegati in videoconferenza dall’Italia e dall’estero, e don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Il momento particolare che stiamo vivendo ripropone, in forme per alcuni aspetti più violente, lo stesso dramma che abbiamo vissuto la scorsa primavera. «Eppure, dentro la tempesta, ci siamo sorpresi a riconoscere l’altro così essenziale alla nostra vita.» Tante sono state le testimonianze che hanno spiegato questo «eppure» come la sorpresa di una grazia che continua ad accadere, pur vivendo le paure e le insicurezze di tutti, spesso amplificate dal disagio dei nostri ragazzi.
Ed è proprio il disagio, la paura dei nostri figli che svela tutta la nostra fragilità di fronte alle incombenze della vita. Grazie a loro siamo messi di fronte all’origine di quel disagio che è anche il nostro: la paura di essere abbandonati, la paura del nulla. Come racconta il figlio, ormai adulto, di una coppia di amici: «La mia ribellione, la rabbia con me stesso e con il mondo, partiva principalmente dalla paura! Quale paura?Dell’abbandono! Ma poi ho capito che questo guardare solo al mio passato e al mio male non mi permetteva di essere felice! Allora ho iniziato un percorso: ho iniziato a guardare il mio presente, voi che siete sempre presenti e che non mi avete tenuto stretto a voi, che mi avete lasciato libero di sbagliare, mi avete detto “ora è bene che tu prenda le tue responsabilità”. E questo ha permesso di guardarmi e di pensare anche a un futuro».
Ma «che cosa regge davanti alle ferite?», ci ha ricordato don Carrón, «che cosa vi sostiene? Come possiamo viverla [questa circostanza così difficile]? Non potremmo senza la luce di questa compagnia […] che risponde alla paura profonda che porta a ribellarsi […]. È la certezza di non essere abbandonati». Ma «dove può poggiare questa certezza? Solo se possiamo vivere di questa esperienza: “Anche se tuo padre o tua madre ti avessero abbandonato, Io non ti abbandonerò mai”. Possiamo farci compagnia, anche in mezzo alle ferite che abbiamo, possiamo reggere davanti a tutte le sfide, soltanto se viviamo una speranza poggiata su qualcosa di presente, così fragile come la nostra compagnia, ma che è il segno della Sua presenza».
Così diventiamo capaci di un’audacia inaspettata. Come il pellegrinaggio dello scorso ottobre con l’Arcivescovo di Milano che, trasmesso via satellite, ha permesso a tutti i nostri amici in Italia e nel mondo di vivere un momento di comunione e preghiera altrimenti impossibile, facendo conoscere la nostra esperienza a molta gente a noi sconosciuta. Oppure l’apertura in Italia e in Spagna ad altre realtà famigliari e associative anche molto lontane dalla nostra storia, con le quali abbiamo cominciato a collaborare in una progettualità stimata e riconosciuta anche dalla pubblica amministrazione. O sempre in Spagna, il bellissimo progetto presentato all’Encuentro Madrid di una visita digitale guidata che ripercorre l’esperienza dell’accoglienza rappresentata nelle opere d’arte del Museo del Prado.
Ma soprattutto l’audacia di esporci, con tutte le nostre domande e limiti all’incontro con l’altro, diventando, quasi senza accorgercene, testimonianza dell’azione di una grazia che ci raggiunge e ci trasforma, come racconta un amico: «Poi improvvisamente manifesto la mia sofferenza di padre. Un amico che mi ascolta attentamente mi “spiazza” del tutto dicendomi: “Sono affascinato dalla tua posizione, sono attratto da questa tua libertà e da questo bene per tuo figlio, non ti senti schiacciato. Io sarei andato fuori di testa al tuo posto. Vorrei sapere come fai e vorrei capire meglio. Si comprende benissimo la tua esperienza in Famiglie per l’Accoglienza”. Ho subìto un fortissimo contraccolpo. Ero giunto con il desiderio di “vuotare il sacco” ed essere aiutato, ma ne sono uscito come testimone di una realtà che si impone». Testimoni di una realtà che si impone, che si esprime in una libertà e in una letizia altrimenti impensabili. Questa è la responsabilità a cui siamo chiamati. Come ci ricorda papa Francesco in un recente articolo comparso sul Corriere della Sera, commentando un brano tratto da Il portico del mistero della seconda virtù di Charles Péguy:«C’è un […] tratto distintivo nell’azione del cristiano […]. È una punta di letizia che resta sempre, magari a volte sottotraccia, anche di fronte alle esperienze più negative e dolorose. È la compagnia di una Presenza che non dipende in ultima analisi dalle circostanze esterne, ma è donata, appunto; una familiarità con Gesù […]. Radice di una speranza di cambiamento che Charles Péguy vedeva come la virtù bambina che cammina quasi nascosta tra le gonne delle due sorelle più grandi (la fede e la carità) ma che in realtà è lei, questa speranza bambina, a tenere per mano e sostenere.
“Per non amare il prossimo, bambina,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e gli orecchi.
A tante grida di desolazione […].
Ma la speranza, dice Dio,
ecco quello che mi stupisce.
Me stesso.
Questo è stupefacente.
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose
e che credano che andrà meglio domattina.
Che vedano come vanno le cose oggi
e che credano che andrà meglio domattina.
Questo è stupefacente ed è proprio
la più grande meraviglia della nostra grazia.
E io stesso ne sono stupito.
E bisogna che la mia grazia sia in effetti
di una forza incredibile.
E che sgorghi da una fonte
e come un fiume inesauribile.
Da quella prima volta che sgorgò
e da sempre che sgorga”
“Che cosa abbiamo vissuto. L’esperienza di bene davanti ai nostri occhi” – Lettera Periodica n. 109 – Luglio 2020
Che cosa abbiamo vissuto quest’anno? Con quale consapevolezza affrontiamo il prossimo futuro? Al termine del nostro anno sociale, la risposta non è da ricercare in un bilancio di eventi e iniziative, ma nello spalancarsi del cuore di ciascuno di fronte all’ordinarietà e alla drammatica straordinarietà di ciò che è accaduto in questi mesi.
La carità non avrà mai fine. Nell’accoglienza, un bene che permane. Su questo tema abbiamo iniziato il nostro cammino quest’anno, offrendolo come spunto di dialogo tra noi e con amici cari alla nostra storia. Carità che si esprime come dono di sé che scaturisce dalla pressione della commozione vissuta verso ciò che Dio sta operando nelle nostre vite; e maggiore è la sfida che la realtà pone, maggiore è lo stupore di fronte a questa operosità.
L’aiuto tra di noi, la più importante compagnia che ci possiamo fare, consiste dunque nell’intercettare e assecondare quella grande esperienza di bene che si palesa quotidianamente di fronte ai nostri occhi.
Per questo a novembre, durante il nostro convegno nazionale, abbiamo rischiato un confronto con i nostri figli accolti che, ormai adulti, ci hanno raccontato come, attraverso le fatiche e le conquiste delle loro storie, spesso drammatiche, abbiano fatto esperienza di un bene che li accompagna tutt’ora, come dice una di loro: “Questo è il bene. Qualcuno che ti aspetta, che aspetta me, cioè dice: «tu sei importante»”. Per questo abbiamo deciso di raccogliere i dialoghi di quei giorni in un libro: perché queste storie potessero essere conosciute.
Un bene che è stato duramente sfidato durante l’emergenza sanitaria. Abbiamo sospeso i nostri incontri, abbiamo vissuto momenti di difficoltà e qualcuno di noi anche di dolore. In un periodo di una intensità inaudita, abbiamo sperimentato secondo nuove forme la famiglia, il lavoro e i rapporti di amicizia, soprattutto i più necessari. In tutto ciò, siamo stati costretti a guardare all’essenziale, come ci ha ricordato Papa Francesco il 27 marzo in piazza San Pietro: “E’ il tempo del nostro giudizio, il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”.
E così, abbiamo continuato ad accompagnarci, sfruttando modalità e strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. In varie città abbiamo organizzato, in videoconferenza, momenti di mutuo aiuto e di supporto a famiglie in difficoltà, minicorsi e incontri pubblici; abbiamo condiviso sul nostro sito e sui social esperienze, racconti, recensioni di libri e film. Un cuore indomito che ha cercato – e cerca – insistentemente, senza mai fermarsi, ciò che serve per vivere.
Non abbiamo smesso di dialogare con realtà amiche e, cogliendo l’invito del Forum delle Associazioni Familiari, abbiamo coinvolto amici e conoscenti in un lungo applauso che ha attraversato tutta Italia, ringraziando le famiglie del nostro Paese, che tanto hanno collaborato ad affrontare questa pandemia. Nelle nostre case, alcune segnate dal contagio, altre dall’impossibilità dei figli in affido di incontrare la famiglia di origine, altre ancora semplicemente costrette a condividere gli spazi tra infinite call di lavoro e lezioni scolastiche online dei figli, abbiamo sperimentato quanto l’accogliere e il sentirsi accolti sia fondamentale per vivere, e quanto questa dimensione sia esperienza di tutti. E’ di una certezza affettiva che abbiamo bisogno. Perché solo un legame genera un soggetto: qualcuno che ama la nostra vita e a questo legame la nostra libertà aderisce, scommettendo sul bene che intravede.
Su questi temi abbiamo dialogato in video conferenza lo scorso giugno con i responsabili della nostra Associazione e Davide Prosperi, Vicepresidente della Fraternità di Comunione e Liberazione.
E’ una appartenenza che genera un soggetto nuovo, capace di una creatività inusuale: mosso da un bisogno, non si limita a tentare di risolvere il particolare, ma introduce un orizzonte totale, universale. In questa prospettiva si pone la nostra opera: il contributo che possiamo portare alla società civile e alla storia è la testimonianza del bene che già stiamo vivendo, e che ci rende sempre più liberi e audaci nell’incontrare e condividere la vita con chiunque.
Le storie e gli interventi raccolti in questo numero ci permettono di entrare nel vivo dell’avventura vissuta quest’anno e ci introducono ai prossimi appuntamenti dell’estate come il Meeting di Rimini, rilanciandoci ad affrontare con curiosità e certezza il tempo che verrà.
Luca Sommacal
“Accoglienza, un bene che permane” – Lettera Periodica n. 108 – Dicembre 2019
«Sono stato lontano per tanti anni; prima non vedevo l’ora di compiere 18 anni per andarmene dall’affido; me ne sono andato, poi la droga, la comunità, il carcere e quella lettera: “Noi ci siamo. Se vuoi chiama!”. E ho chiamato. Ora per la prima volta posso dire che sono i miei genitori». Si fa silenzio tra i 350 partecipanti all’ultimo seminario nazionale di Famiglie per l’Accoglienza pochi giorni fa. Un silenzio che dice quanto una parola racconta un fatto che attendevamo dal profondo del cuore, quanto riapre in ciascuno una speranza. A parlare è un giovane sui 25 anni, in affido da quando ne aveva 10, con una storia dolorosa alle spalle, tratteggiata sui tatuaggi del braccio.
Un altro racconta che è andato via anche lui, scappato da un abbandono, dall’amore della famiglia adottiva, dalla scuola, dalla vita. Ha gridato: «Sono arrivato ad odiare chi mi voleva bene, perché mi prometteva qualcosa che il male aveva vinto». Invece il bene ricevuto ha vinto nel tempo: come un seme è maturato nella terra della sua inquietudine e piano piano gli ha permesso di ritrovare se stesso. Ha detto: «Odiavo i miei genitori adottivi, che erano bravissimi, ma io odiavo la vita e loro erano lì accanto a me e scaricavo su loro il mio odio. Oggi riconosco i passi che mi hanno accompagnato e sostenuto, e loro ci sono, ci sono come genitori nella mia vita».
I nostri figli accolti, ora grandi, in tanti modi ci testimoniano quello che abbiamo messo a tema quest’ anno e che vogliamo riscoprire come esperienza: la carità non avrà mai fine, nell’accoglienza un bene che permane. Dopo tanti anni di Associazione, con tante storie che vengono da lontano (qualcuno è diventato nonno adottivo o affidatario) è interessante verificare se il bene permane nell’accoglienza, come è accaduto un compimento nella nostra vita e in quella di chi abbiamo accolto.
Un cammino da vivere con lealtà e che prende forme e strade nuove. «Con tre figli pensavo di essere a posto. Un giorno, accarezzandomi il pancione del mio quarto figlio, ho fatto esperienza per la prima volta di cosa fosse l’accoglienza. Non lo sapevo ma in quel momento avevo aperto il mio cuore all’adozione, all’affido, all’ospitalità. Così stando in Famiglie per l’Accoglienza abbiamo accolto una bambina con la sindrome di Down, la nostra principessa speciale, e ora abbiamo iniziato l’avventura di una nuova casa famiglia». Così ha raccontato un’amica. E un altro ha detto: «Nonostante i nostri limiti ci siamo accorti che attraverso noi è passato quell’amore che abbiamo ricevuto dal Padre in abbondanza e che abbiamo riversato sul nostro figlio affidatario. Abbiamo imparato a guardare con occhi diversi la realtà dei ragazzi che sbagliano: non sono più dei disgraziati, ma persone che valgono più degli errori commessi, creati, come me, dall’amore di Dio».
Nei racconti traspare una pazienza, una capacità di ripresa indomite; un sacrificio e una speranza, che non sono frutto di una nostra capacità, ma continuamente ridonate e sostenute nella nostra compagnia. «Non occorre altro che il tempo e il paragone con il cuore per vedere cosa è vero. E perché dura? Perché corrisponde alle esigenze del cuore». Così abbiamo scritto nel “filo rosso”, il tema principale di quest’anno, che desideriamo scoprire come esperienza. Desideriamo ritrovarci un po’ meno prigionieri della misura, dei bilanci, dei sensi di colpa. Desideriamo scoprire che la carità non avrà mai fine, perché nasce e rinasce, istante per istante, dall’amore di Dio che si dona e fa esistere il nostro niente, si commuove per la nostra meschinità. Desideriamo cedere alla ricchezza che chi accogliamo porta nella nostra vita e accorgerci che l’accoglienza piano piano diventa dimensione della nostra vita. Ha detto un’amica: «Il bene che resiste è che l’accoglienza è diventata dimensione di fronte a tutto: la malattia, il marito, la lontananza dei figli, l’imprevisto, che sempre mi ha portato qualcosa di più grande».
Aiutiamoci a custodire il desiderio del nostro cuore come desiderio dell’infinito che alberga in ogni uomo, senza nascondere nulla, neanche il nostro male e la nostra debolezza (o quella dell’altro). Impariamo ad accettare che Dio ama la mia debolezza e attraverso essa vuole salvarmi. Ecco quello che dura nel tempo e che desideriamo riscoprire intensamente quest’anno. Dentro i passi, le gioie, le ferite.
Al nostro raduno gli occhi brillavano, a volte fino alle lacrime, non solo per le testimonianze e le parole vere sentite, ma perché in questi anni sono diventate carne, “nostre” come esperienza. Siamo ricchi di quello che abbiamo vissuto e visto accadere. Questo desideriamo portarlo a tutti, là dove siamo, grati di un luogo, di una storia piena in cui siamo continuamente accolti.
L’opera ha questo scopo: sostenere il cammino buono di chi accoglie e di chi è accolto e testimoniare nel mondo la gratuità. È una amicizia operosa e anche ordinata. Per 16 anni mi sono trovato a condurla come presidente. Ho avuto il dono di vedere tante persone, testimonianze, iniziative, e di ciascuna, di ciascuno di voi sono grato. Poi ho visto crescere una corresponsabilità, una partecipazione e una libertà. Oggi mi accorgo che può essere un bene per tutti noi che un altro si assuma questo compito e sono grato a Luca (e anche alla sua famiglia) di aver accettato. Credo che ognuno abbia colto quanto è preziosa la nostra unità guidata e cerchi di amarla. Anche in tutto questo si documenta il bene che permane.
«La permanenza della novità non è assicurata da una tenacia nostra di coerenza o da una intelligenza dei nostri tentativi, è data da qualcosa di oggettivo che già c’è. Cristo è risorto».
Ascoltando, guardando, seguendo, vivendo, la vita si riempie di certezza e di silenzio, come la sala dei 350 partecipanti: silenzio davanti al Signore che opera in mezzo a noi.
Marco Mazzi
“Nacque il tuo nome da ciò che fissavi” – Luglio 2019
Il verso tratto da una poesia di Karol Wojtyla, scritta molto prima di diventare Papa Giovanni Paolo II, è il titolo del prossimo Meeting per l’Amicizia tra i Popoli che si svolgerà a Rimini dal 18 al 24 agosto e a cui parteciperemo insieme a tanti amici.
Il nome, per gli ebrei, ma anche per noi cristiani, è ciò chi ti fa riconoscere, con cui vieni chiamato, qualcosa che definisce l’essere della persona. Non è ciò che una persona fa, il suo ruolo, la sua competenza, la sua posizione sociale quello che la definisce; neanche la sua origine o appartenenza (che è legata casomai al cognome): il nome è quello che una persona è, il suo io, la sua originalità e unicità.
E affermare che questo nasca nel fissare un altro, un Altro – perché nella poesia citata il Papa sta descrivendo l’incontro tra la Veronica e Gesù dopo la Passione e la Resurrezione -, apre una dinamica vertiginosa.
Dicevo a mia moglie che a volte mi è più facile essere teso a capire che a vivere, mentre ci sono cose che si capiscono solo vivendole, e lei ha soggiunto: «Non si tratta di capire, neanche di vivere, ma di amare».
Amare, fissare, avere gli occhi e il cuore spalancati a un presente senza alcuna premessa o condizione, è possibile sempre, ora, nonostante tutto.
“Il tuo nome nacque da ciò che fissavi”: un’esperienza che apre al mistero di essere generati nel rapporto con un altro, con un Altro, dal suo sguardo, dalla sua presenza.
A volte nell’accoglienza ci si smarrisce nella dinamica di voler essere riconosciuti dai nostri figli, di desiderare che ci obbediscano, che vedano chi siamo per loro e tutto il bene che abbiamo loro voluto, tutto quello che abbiamo fatto per loro. Che ci riconoscano come padri e madri. Un desiderio comprensibile, umano, ma che può inceppare la vita perché parte da un bilancio, da una pretesa: il nostro valore – il nostro “nome” -, non deriva da quello che abbiamo fatto, ma da qualcosa di gratuito in cui si siamo imbattuti, per cui abbiamo fatto l’esperienza che tutto in realtà ci è stato dato, che la realtà, le persone, noi stessi tutto è dono. “Non c’eravamo, ci siamo; perciò l’esserci, il vivere, l’esistere, il muoversi, è partecipare a qualcosa d’altro … La radice della gratuità sta tutta qui, proprio perché nulla è nostro» (Luigi Giussani, Il Miracolo dell’ospitalità).
Da questo tutto viene cambiato e quante volte abbiamo visto nella nostra storia che è generativo per noi e per chi abbiamo accolto.
Un giovane adulto accolto tanti anni fa, dopo la morte del padre affidatario ha scritto: «Adesso, dopo avermi fatto figlio, mi chiede di essere padre. Questo è un padre: uno che vuole che tu viva, uno che tifa per l’umano che c’è in te, uno che ti perdona».
Viene in mente il padre del figliol prodigo della parabola del Vangelo, quel padre che fissa la strada da cui comparirà il figlio, che lo scorge da lontano con uno sguardo in cui il figlio ritrova il suo essere figlio, ben oltre la sua misura, che era fatta di ghiande e di cibo.
Quest’ anno ci ha accompagnato la frase “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, che dalla coscienza di quello che abbiamo ricevuto ci spalanca ad un abbraccio verso chi incontriamo. Anche la frase del Papa sulla Veronica prosegue in questa direzione dicendo «la redenzione cercava la tua forma per entrare nell’inquietudine di ogni uomo». Che impressione e che umiltà, accorgersi che la forma attraverso cui il Signore desiderava entrare come bene, come abbraccio nella storia di un bambino ferito, sia casa nostra, il nostro mangiare e lavorare, la quotidianità della vita dentro le nostre case. Ha detto una delle nostre ragazze: «Le semplici azioni giornaliere come fare i compiti, giocare all’aperto, mangiare insieme, spesso, le diamo come scontate, ma ho imparato che non c’è niente di scontato e che tutto questo è possibile grazie a delle persone che ci hanno amati sin dall’inizio».
Storie, persone, incontri, una vita che al Meeting si dà appuntamento per continuare ad essere stupiti di ciò che accade.
Marco Mazzi
“La gratuità si fa opera, l’opera vive di gratuità” – Lettera Periodica n. 107 – Maggio 2019
«La gratuità deve diventare l’anima del nostro lavoro (…). La gratuità è affrontare i rapporti con se stessi e con gli altri e le cose alla luce del destino» ci ha detto mons. Luigi Giussani (Il Miracolo dell’ospitalità, Milano, 2012, p. 32). Parole cariche di significato che gettano una luce sulla nostra storia. Accompagnare l’esperienza delle famiglie che accolgono, vivere la gratuità, mostrarla a tutti come strada possibile di un rapporto vero tra gli uomini: questo è lo scopo per cui è nata Famiglie per l’Accoglienza, è il dinamismo con cui si è diffusa, il contributo che desideriamo portare.
Gratuità e opera: la gratuità che si fa opera e l’opera che vive di gratuità. Significa che c’è un’origine in quello che facciamo ed è la consapevolezza che siamo continuamente fatti e accolti. Significa che non è una misura, uno sforzo o una presunzione a segnare il nostro tentativo, ma come ci ha detto Novella Scardovi, amica cara volata in cielo appena dopo aver realizzato il sogno di costruire una grande casa famiglia, «è la gratitudine che deve diventare opera». L’opera che nasce da un evento gratuito è diversa da altre, chi la fa è diverso, perché sotto la pressione della commozione per quello che il Mistero ci dona, possiamo dare senza che questo sia moralistico e perciò essere liberi in quello che facciamo. Nel tentativo di rispondere a un bisogno, nell’aprire la propria casa a una persona c’è uno sguardo da imitare: quello che il Padre porta a ciascuno – valore infinito da riconoscere. E pur dentro il sacrificio, in questo c’è una possibilità di letizia: viene dalla consapevolezza dell’origine come imitazione di Dio e dello scopo che sono i volti e il bene di chi accogliamo.
Siamo immersi in un mondo, in una cultura in cui prevale l’individualismo, l’assenza di relazioni, i muri e la paura di fronte all’altro, paura che la relazione ci impoverisca, ci porti via qualcosa. Proprio in questo contesto con la nostra esperienza portiamo la documentazione che è possibile il contrario: ponti, non muri; ricchezza dell’incontro, non paura; condivisione dei bisogni e circostanze, non delega ad altri o allo Stato. Portiamo una vita che si lascia incontrare. «Chi vive, anche senza parlare, porta una diversità. Occorre comunicare esperienza più che sbandierare valori. Se enunci un principio non muovi il cuore di nessuno; una presenza è quando intorno a te qualcosa si muove dentro le persone» (Bernhard Scholz, presidente delle Compagni delle Opere, Assemblea dei responsabili di Famiglie per l’Accoglienza, 23 marzo 2019).
Come raccontano vari esempi di queste pagine. Valeria, assistente sociale di una ASL veronese dice: «Condividiamo il Centro affidi con le Associazioni, non collaboriamo ma siamo insieme: una storia di incontro, di reciprocità di accoglienza tra noi, sapendo che i veri esperti sono le famiglie, con un unico criterio: essere lì per il bene del bambino». Maria Elena, mamma affidataria, ridestata alla passione per la nostra esperienza proprio dall’intensità sofferta di questa esperienza, dice: «È come esplosa dentro la vita» e ora trova nella raccolta fondi occasione di parlare di sé, di comunicare quello che vive. Gratuità all’opera, allora, dentro ogni gesto e ogni strumento. Senza temere la sfida del tempo presente in cui si parla tanto di famiglia e di solidarietà, ma ci si ferma alle analisi e alle proposte, mentre occorre vedere che è possibile, che la famiglia non è fallita, che l’individualismo non è inevitabile. Per questo abbiamo partecipato di cuore all’evento #Dònàti organizzato dal Forum delle Associazioni familiari, e in 15 città d’Italia assieme ad altre realtà abbiamo mostrato la bellezza umana della famiglia che accoglie. Per questo a chi governa chiediamo di permettere alla famiglia di vivere nella sua originalità di luogo, di tempo e di spazio, cioè come dimora di accoglienza totale nella differenza tra uomo e donna, nella sua generatività, in questo tempo drammaticamente segnato dalla denatalità e dalla instabilità dei legami, nella sua competenza educativa, economica e sociale.
Ci piace pensare alla famiglia come luogo di gratuità dentro la società, in cui ci sono persone che danno la vita per l’altro, figlio, marito, padre o estraneo che sia. Una presenza nella pazienza, dove il nostro primo compito è vivere e là essere noi stessi dove siamo, non come progetto, ma come commozione e gratitudine. Una presenza anche nel nascondimento di tanti che danno la vita nelle proprie case, accanto ai propri cari ammalati, o che restano fedeli alla loro storia coniugale anche quando è spezzata, o che accettano di portare a termine gravidanze problematiche, o che ci hanno mostrato una certezza piena di umanità anche di fronte alla malattia e alla morte. Testimoni nascosti che generano attorno a loro sempre un popolo di persone commosse e cambiate. «Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello» (Amoris Laetitia, n. 183) Così ci ha insegnato Papa Francesco. La gratuità all’opera ne è una strada preziosa.
Marco Mazzi
“Il tempo della gratuità” – Lettera Periodica n. 106 – Novembre 2018
“Il futuro non è una minaccia da temere , ma è il tempo che il Signore ci permette perché possiamo fare esperienza della comunione con Lui, con il fratelli, con tutta la creazione” (Papa Francesco, conclusione del Sinodo sui giovani).
Il tempo, quello che ci attende e quello presente, è un dono ed è “abitato” da Chi ce lo dona. Quante volte ne abbiamo fatta esperienza.
Il tempo delle nostre giornate, delle fatiche, dei tentativi e anche delle amarezze, delle gioie inaspettate e del fiorire lento e paziente della libertà dei nostri figli, dell’umile presa di coscienza di quello che davvero vale nella nostra vita.
Il tempo della tenerezza e del perdono tra marito e moglie, dell’accorgersi che l’altro è un mistero irriducibile e, proprio nella sua diversità, ci fa camminare, cambiare, ci dona di riscoprire noi stessi in modo inimmaginabile. “È nello sguardo dell’altro su di me che io ritrovo me stesso”, diceva un amico al nostro ultimo incontro dei responsabili. È nel tempo la possibilità di scoprire il dono di non essere soli, ma in una compagnia che fa il tifo per me, per la mia accoglienza, per il mio cammino. “Famiglie per l’Accoglienza è un luogo dove la mia domanda non è sbagliata” ci ha detto un altro amico.
Il tempo è un dono pieno di tutto questo e, guardandosi indietro, capita di sorprendere i passi, le svolte, le dune e le strettoie, i panorami e le commozioni che hanno segnato questa storia personale e comune e che ci hanno fatto arrivare fino a qui.
Il cammino che vogliamo tracciare quest’anno è contenuto nella frase evangelica “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, cui abbiamo aggiunto: la gratuità all’opera.
Sentiamo il desiderio di fissare il nostro sguardo, la nostra attenzione, il nostro cuore sulla gratuità: questa modalità di relazione per cui posso stare con te (e anche con me stesso) senza una misura, senza cercare un tornaconto. Questa modalità che intravediamo nella madre che dà la vita al figlio, come ci ha mostrato una testimone eroica come Chiara Corbella, di cui inizia la causa di beatificazione, che non ha voluto curare il suo tumore per rispetto del figlio che portava in grembo, o come ci testimoniano tanti anche tra noi.
“Caro, le ore del distacco sono dure – ha scritto un’amica – il cuore mendica, ma è ferito. Abbiamo riportato la bambina dalla mamma dopo 5 anni di affido. Vedere a casa la sera ancora le sue cose, il pigiamino, le ciabattine, mi ha fatto un male pazzesco. Ma capisco al contempo che tutta la mia umanità ferita debba passare attraverso questo momento, non c’è altra strada per entrare in una nuova misura delle cose. Ma inizio anche a intuire che questo perdere il controllo, come nel rapporto amoroso è un lasciarsi possedere, mi affascina, come niente altro al mondo, potere finalmente appartenere, pur nel dolore”. Un’ altra amica, raccontava: “In questi 11 anni di adozione nulla è andato come avevamo immaginato, dall’inizio a oggi. Eppure piano piano è accaduto di anteporre il progetto del Signore al nostro, e passare dalle stupidaggini che nostro figlio fa, al suo cuore, a scoprire il mistero che c’è in lui e che lui è un bene per noi, fino a stupirmi della tenerezza che provo verso la sua mamma d’origine casualmente scoperta via internet”.
Per vivere questa gratuità, per desiderarla, per non cedere alla nostra inadeguatezza e riduzione (perché noi appena entriamo in un rapporto ci accorgiamo che questa gratuità ci scappa, non riusciamo a viverla) dobbiamo aprirci continuamente al “gratuitamente avete ricevuto”. Non ci saremmo, e non ci sarebbe quello che siamo, fino ad ogni più piccola fibra e momento della nostra storia, senza Qualcuno che ci fa, e ci ha pensato così. Non saremmo attirati al bene se Qualcuno non ci avesse messo nel cuore questo desiderio; non sapremmo ricominciare senza il dono di una energia che non viene da noi.
Per questo dei tre verbi con cui abbiamo cercato di sviluppare il cammino di questo anno – contemplare , accompagnare e promuovere -, il primo è il più importante. Perché la realtà, i figli, le storie, l’amicizia e gli incontri, anche quelli più banali o istituzionali, sono qualcosa da contemplare, cioè fatti in cui riconoscere Chi ce li dà.
Questa gratuità che accade è qualcosa innanzitutto che fa un Altro, noi ci mettiamo tutta la nostra energia, ma la percezione vera è, come diceva don Giussani, che “c’è il passo di un Altro tra i nostri passi” e che “questo incedere è il miracolo che accade nelle nostre case”. Dobbiamo continuamente impararlo a riconoscere, e guardare con tutta la semplicità del bambino, con tutta la ragione aperta di un adulto. Fino ad inginocchiarsi perché sta accadendo qualcosa del Divino: attraverso i limiti, il sì, la fatica di quella persona, c’è qualcosa di grande che accade.
L’ imprevedibile che accade nelle parole di un genitore adottivo: “Per me, mia moglie, ma anche per il bimbo che è in adozione con noi, con tetraparesi e ritardo cognitivo forte, l’incontro è stato come qualcosa di schianto. Come un innamoramento. Di sicuro è stato preparato, meticolosamente, dal Signore, nel tempo, dove anche il dolore preparava ad una letizia davvero grande. È incomprensibile e imprevedibile, mai ce lo saremmo aspettati. E soprattutto mai lo abbiamo guardato per il suo handicap. Anzi, ricordo gli sguardi intensi, anche perché non parlava con la bocca, ma con gli occhi e guardandomi lui sanava me. Non noi abbiamo accolto lui, ma lui ha accolto noi”. Senza ricevere non possiamo dare.
Solo per lo stupore di essere amati di un amore eterno, solo per la commozione che questo ci dà, possiamo dare agli altri senza che sia uno sforzo fondato su noi stessi e quindi in modo libero, gratuito, fedele, soprattutto lieto. “Libero perché abbiamo già tutto, fondati non sulla nostra gratuità ma su quella di Dio” (don Luigi Giussani).
Silvia ha adottato un ragazzo di colore arrivato coi barconi; prima l’incontro quasi casuale, poi l’ affido, e quindi l’adozione. Una distanza incredibile che diventa quotidiana condivisione per sempre. Uno che era considerato uno scarto diventa figlio. Fino a rompere gli equilibri familiari, fino a spingere lei al perdono dei propri genitori, fino a quella domanda cruciale del proprio figlio naturale ribelle: “Ma tu mi vuoi bene anche se sono ridotto così?” e nel rispondergli Silvia riconosce che lì ha iniziato a essere madre.
Quante volte ci chiediamo perché certi dolori accadono? Il Papa ha risposto che le nostre ferite iniziano ad essere delle potenzialità quando per grazia scopriamo che il vero enigma non è più “Perché?”, ma “Per chi?”. Per chi mi è successo questo? In vista di quale opera Dio mi ha forgiato attraverso la mia storia? Qui tutto si rovescia, tutto diventa prezioso, tutto diventa costruttivo.
Poco prima della sua morte, la nostra amica Novella, che vent’anni fa ha cominciato la Casa San Giuseppe e Santa Rita, dopo essere stata folgorata dall’esperienza dell’ accoglienza e averci mostrato una grandissima intensità di vita e di gesti, testimoniava ad un gruppo di ragazzi che «l’opera nasce dalla gratitudine, è la gratitudine che deve diventare opera».
“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Non un prima e un dopo, ma il traboccare di una novità e di una sorpresa, momento per momento, sperimentata, che non possiamo trattenere tanto ci commuove e continuamente muove.
Per sempre, dal presente al futuro. “Chi va fino alla fine è strumento del braccio di Dio nel mondo e perciò collabora alla redenzione finale, quando tutto ciò che è storto ritornerà com’è nella mente creatrice di Dio, diritto, e tutto ciò che è lordo e pesante diventerà leggero e libero, e tutto ciò che sembra dover morire, o soffocare il tempo della vita da un momento all’ altro, diventerà vita, vita eterna” (don Luigi Giussani, Il Miracolo dell’ospitalità).
Marco Mazzi
“Fare esperienza di un luogo che allarga l’orizzonte e rilancia la vita” – Lettera Periodica n. 105 – Luglio 2018
Silvia non sapeva che sarebbe stata così dura, che quel sì detto tanti anni fa adottando sua figlia sarebbe stato così carico di imprevisto e di fatica. Non sapeva che amare la libertà dell’altro, tornare ad accoglierlo – dopo tante liti, scelte diverse, la fuga, i legami affettivi, il buttarsi via -, avrebbe segnato un tempo della vita e fatto emergere una ferita che tanto amore e sacrifici non avevano potuto colmare. E poi quel tarlo continuo: «Dove ho sbagliato, dove abbiamo sbagliato? Perché non sopporto più certe frasi che lacerano dentro? Mi sembra di non riuscire, è un fallimento… ». Pensare di non essere la persona giusta, la mamma adeguata, quella che sa accogliere sempre: un tarlo che scava gallerie profonde nel nostro cuore, nella nostra giornata e apre una costante misura cattiva, arida, cinica, fino a minare le cose più preziose, come l’unità tra marito e moglie. Poi succede che si trova la forza di aderire a un suggerimento del marito: «Vai con loro, vai a quell’incontro, fidiamoci di questi amici che non ci lasciano». E riaccade, riaccade un sussulto di consegna di sé, uno sguardo che torna a vedere i colori e una profondità di significato, se non ancora di pace, una certezza, tanto da far dire al marito: «L’incontro con voi è stato riprendere in mano l’origine, o meglio l’origine ci ha ripreso. Grazie perché ci siete».
Ecco l’esperienza di un luogo che allarga l’orizzonte e rilancia la vita. Un luogo: persone, rapporti, storie, esempi, incontri, difficoltà e sfide, parole dette e ascoltate e guardate insieme; mani che si stringono, sorrisi e a volte incomprensioni, attese condivise, domande e gesti, ricordi e gratitudine e tanto altro. Un luogo, un punto reale nella storia della vita di uno e nel tempo di tutti. Per vivere bene, per amare le circostanze e le persone, per camminare grati verso un compimento abbiamo bisogno di luoghi di amicizia e di condivisione. Ci arriviamo con la nostra sete, quella domanda di infinito e di felicità che sta sotto ogni nostro pensiero e gesto. «Forse aver bisogno è la situazione stabile e irrisolvibile della nostra vita» diceva una mamma adottiva. Nessun uomo può rispondere a questo.
Eppure ci sono altre persone con cui condividere e nel cui sguardo possiamo riposare. Uomini e donne con tutti i loro limiti, che ci mostrano pezzi veri anche se parziali della grande risposta alla nostra domanda . Donne e uomini come noi con cui ci accade di partecipare a un luogo reale, a una storia particolare, in cui fare esperienza di novità e risposta alla nostra attesa. Queste pagine, le pagine della nostra esperienza, sono piene di fatti in cui siamo stati raggiunti, raccolti, rilanciati, da sguardi, gesti, parole, persone. «La vostra è un’esperienza e un’amicizia, l’organizzazione e l’associazione sono strumento di aiuto a queste due cose: all’esperienza personale e all’amicizia vicendevole» (Il miracolo dell’ospitalità, Piemme, 2012 – pag 55). Così ci ha detto un giorno don Giussani. Famiglie per l’Accoglienza è e desidera essere una storia piena di luoghi e momenti di incontro in cui ci si può accompagnare sempre. Cosa li caratterizza? L’esperienza di essere accolti, la proposta di mettersi in gioco per vedere la profondità di quello che si sta vivendo e imparando, anche nei passaggi più difficili, la certezza di un bene che si pone, e, con tutte le nostre domande e ferite, l’aiuto a guardare l’origine della nostra accoglienza. Diceva sempre don Giussani: «Senza l’incombenza di Dio sull’orizzonte della nostra vita noi non possiamo spalancarci all’accoglienza» (Il miracolo dell’ospitalità, cit. pag 11). Siamo continuamente rimessi in un giudizio più grande del nostro. Raccontava un amico che guida un gruppo affido cui partecipano tante famiglie nuove e giovani: « Si parte dall’idea di essere famiglie forti che ne sostengono altre bisognose. Poi nell’esperienza si arriva a capire che siamo noi i bisognosi rispetto a moglie, marito, figli, amici…». Anche la famiglia ha bisogno di un’appartenenza più grande, come ci ha detto don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione: «La famiglia come tale ha bisogno di un luogo in cui essere sostenuta ed esso può essere rappresentato solo da una comunità cristiana viva, che sperimenta cioè con pienezza la fede» (La bellezza disarmata, BUR – Milano 2016).
Non luoghi chiusi ma spalancati al mondo, come hanno testimoniato in questo tempo, in particolare, le famiglie che hanno ospitato i bambini orfani o bisognosi dell’Ucraina o hanno partecipato al progetto della Caritas “Un rifugiato a casa mia”, oppure hanno organizzato le decine di momenti di convivenza e incontri pubblici di questi mesi. L’esperienza dell’accoglienza rende a portata di tutti un bene che il mondo vede, stima, ma non crede possibile. Aperti a un compito, a una missione. «La gente che incontrate per strada non sa più a chi appartiene, non si sente più di nessuno. La vostra missione consiste nel suscitare in loro la nostalgia di una casa» ha detto mons. Massimo Camisasca vescovo di Reggio Emilia.
Come ci guidano queste parole! Allo stesso modo ci accade di sperimentare la frase posta a titolo del Meeting di Rimini di questo anno, “Le forze che cambiano la storia sono le stesse che rendono il cuore dell’uomo felice”. È l’uomo il centro e il cuore dell’universo e della storia. Se la novità non accade in lui, non accade. Tutta la storia è piena di documentazioni di questo e così anche la nostra. C’è un modo di guardare l’uomo e la storia che va oltre ciò che appare (che pure ha il suo valore). C’è una forza che muove la storia che passa attraverso il compimento, la felicità, l’amore, la disponibilità, il sacrificio, la libertà di ogni singolo uomo, per cui nulla è banale: è la grandezza del quotidiano, dell’accoglienza, di ciò che accade nella singola giornata della singola famiglia. Ci siamo sempre aiutati a ricordare che ciò che accade nelle nostre case non è privato, ma per il bene del mondo. Allora la frase precedente si potrebbe girare: “Le forze che rendono l’uomo felice sono le stesse che muovono la storia”. I gesti di accoglienza che facciamo, proprio perché cambiano noi e chi accogliamo, possono cambiare la storia.
Marco Mazzi