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“C’è bisogno di un luogo in cui poter dire chi siamo”

Sabato 27 Febbraio incontro online di Famiglie per l’Accoglienza Toscana con don Federico Pichetto alla luce del testo “Il bene che permane” (Itaca Edizioni, 2020).

È sabato sera, la cena è da poco conclusa. Sul tavolo di cucina i piatti e le posate cedono il posto a tablet e computer portatili. Stasera cinquanta famiglie si ritrovano insieme – attraverso una piattaforma online – per dialogare con don Federico che racconta la sua esperienza personale di affido.

La sua storia è accomunata a quella di tante nostre famiglie da un’esperienza di bene di cui troviamo traccia nel libro “Il bene che permane”; il testo su cui Famiglie per l’Accoglienza Toscana propone settimanalmente un momento di paragone.

Luciano introducendo la testimonianza di don Federico indica come nell’esperienza di accoglienza di tante nostre famiglie possiamo dire che c’è un bene che permane, senza un punto interrogativo finale, che nel tempo si svela. “Il tempo dell’accoglienza che accompagna è, in fondo […] il fatto che il tempo della nostra attesa, della nostra fatica e pazienza, il tempo pieno di cose che […] sembrano non raggiungere compimento, proprio questo tempo è diventato tempo di Dio. Tempo di Dio per noi” (dalla Prefazione de “Il bene che permane”).

Don Federico nasce a Genova nel 1984, da subito viene accolto da una famiglia adottiva, poi le trame della vita lo portano ad entrare nella casa di una famiglia affidataria dell’associazione. Nel raccontarci la sua esperienza di affido don Federico si mette a nudo non censurando niente delle fragilità e dei limiti. Ed è proprio da quelle fragilità, dalla ferita dell’abbandono, dal bisogno di essere accolto (che solo il tempo ha permesso di riconoscere fino in fondo) che si è manifestato un bene innanzitutto per la propria vita, fino all’accorgersi di non essere solo e di avere una famiglia e al riconoscimento che una figliolanza dura tutta la vita.

“Oggi – dice don Federico – a 37 anni appena compiuti posso dire che l’affido si è concluso ed è andato a buon fine. Mi rendo conto che, in un certo senso, adesso tocca a me essere padre per poter rimanere figlio”. Al termine del racconto rimane lo spazio per qualche domanda dove Debora, Francesco e Lucia chiedono un aiuto su come poter star difronte al senso di ribellione dei propri figli, a cosa significa essere riconosciuto padre e qual è il lavoro che ultimamente è necessario fare su di sè.

Le risposte di don Federico nascono dal profondo della sua storia di accoglienza proprio laddove la sua ribellione concedeva poco spazio ad un abbraccio. Concludendo ci indica dove guardare: c’è bisogno di un luogo dove poter dire fino in fondo e con verità chi siamo, dove imparare a perdonarsi. Occorre un posto così, dove si può dire: sono a casa.