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“La scuola è qualcuno che ti aspetta”

Una lettura del libro di Emilia Gibelli, insegnante di sostegno

Ho conosciuto Emilia Gibelli, l’autrice di questo libro, in occasione di un incontro a Torino sull’inclusione scolastica dei bambini portatori di storie di abbandono. Ho trovato queste 160 pagine davvero preziose e ricche di riflessioni utili non solo per chi ha in classe bambini disabili, ma anche per ogni genitore e insegnante che voglia approfondire una vera e propria pedagogia dell’accoglienza. Riproponiamo qui solo alcune delle tante suggestioni che il libro suggerisce.

Emilia, dopo una laurea in Lettere moderne, un’esperienza di bibliotecaria presso alcune facoltà universitarie di Torino, e il diploma di specializzazione polivalente, è dal 1998 insegnante di sostegno nella scuola primaria. Il libro, dal suggestivo titolo La scuola è qualcuno che ti aspetta, racconta della sua prima esperienza come insegnante di sostegno di Alessio, un bambino affetto da una grave forma di autismo. Lo stile pertanto è quello del racconto, quasi giorno per giorno nel primo anno, quando incontrò un bambino molto chiuso, oppositivo, sfuggente e distruttivo di tutto ciò che aveva intorno, e dei suoi reiterati tentativi di chiamarlo a un rapporto con sé, con i compagni, con gli insegnanti di classe e anche con le cuoche e il personale non docente della scuola, e poi i progressi realizzati in modo commovente da Ale verso una progressiva maturazione dentro all’avventura della conoscenza del mondo intorno, sempre all’interno di relazioni significative costruite con grande attenzione da Emilia: «Sono convinta che tutti i bambini, anche i più gravi, capiscano almeno l’intenzione del linguaggio verbale e gestuale, dello sguardo, degli occhi, del sorriso, del tono di voce, delle mani, della vicinanza fisica e della postura, nel loro tessuto esistenziale di affetto, di relazione, di riconoscimento, di messaggio profondo di valore. C’è, infatti, un’intelligenza della vita che i bambini con disabilità hanno, a volte più di noi, una capacità di saper cogliere la bontà o meno di una relazione. Data la mia formazione letteraria sono pienamente persuasa poi che il linguaggio umanizza chi lo usa e chi lo riceve e che occorre dare parole e senso alle cose e alle azioni il più possibile» (p. 48).

Questo libro non è infatti soltanto un toccante diario di bordo nella difficile navigazione nel mondo interiore di un bambino autistico che a poco a poco si svela e si affida ai compagni e agli adulti di riferimento. È sì un intelligente percorso didattico, ispirato con grande sensibilità alle molte letture di cui si dà documentazione qua e là dentro al testo e nella bibliografia finale, ma può essere letto, da parte di chi si trova a fare i conti col mondo complesso di un bambino autistico, anche come una testimonianza di una vera e propria pedagogia dell’accoglienza umanistica, pratica e attiva, pronta sempre a «seguire la realtà concreta dei fatti, piuttosto che le teorie e i ragionamenti astratti» (p.55). Infatti, come scrive Emilia Gibelli, vi è sempre in ogni bambino una grande ricchezza da scoprire di giorno in giorno:

«Chi fa l’insegnante di sostegno è aiutato, e talvolta costretto, a riconoscere che nulla è scontato o meccanico, che dietro ogni semplice azione sono coinvolti mille fattori e abilità concatenate, che ogni gesto anche minimo, in realtà, è un prodigio di possibilità e capacità fisiche, mentali, emotive» (p. 22). Tra queste capacità soggettive di ogni bambino rimane comunque sempre, al centro, la sua libertà: «Occorre ricordare che in ogni percorso educativo è sempre implicata la libertà del bambino. Qualunque sia la gravità del suo handicap. L’alunno infatti deve scegliere se accettare o no di porsi in relazione, di impegnarsi, di mettersi all’opera, di fidarsi, di faticare, altrimenti anche il piano educativo e didattico più incredibile non può portare frutto» (p. 23). Per questo dicevamo che il testo è una testimonianza, non istruzioni per l’uso. Una testimonianza con cui tuttavia può confrontarsi l’esperienza di altri, insegnanti o genitori, per trarne frutti di conoscenza e di paragone. Alcuni temi balzano all’occhio: innanzitutto l’osservazione e l’attenzione, che sono virtù specifiche di ogni buon educatore, Così, dinanzi agli imprevisti posti dal quotidiano: «… è anche vero che, cercando e stando attenti, capita spesso di “inciampare” quasi casualmente nella soluzione, offerta dalla realtà stessa, dall’alunno, da altre persone, dall’ambiente circostante, dagli avvenimenti, dallo studio» (p. 38).

Un altro punto importante è la riduzione dell’ansia di prestazione, che può essere perseguita intervallando i momenti di apprendimento a quelli di relax e di gioco: «Questo aiuta molto nella relazione perché ciascuno si percepisce come un bene per l’altro e riscopre l’altro come un bene per sé» (p. 47). Dunque ogni bambino così come è e al punto in cui è, ci insegna Emilia Gibelli, non è innanzitutto un problema da risolvere, ma un punto di partenza e di ripartenza. Una parola che ricorre come un fil-rouge nel racconto degli innumerevoli tentativi, errori e riprese con Ale, è la parola speranza: «Le sue conquiste erano come piccole perle improvvise, dei lampi di luce che poi, magari, non riaccadevano più. A volte si inabissavano per poi riemergere molto tempo dopo. Però, ogni volta che succedevano, erano innegabili e lasciavano una finestra aperta di speranza nel miglioramento della sua qualità di vita» (p. 65). Questa speranza, tra infiniti erramenti, infine ha pagato: Ale, dentro a un grande abbraccio, è uscito dalla quinta sapendo leggere, sia pure con fatica, e soprattutto con un’apertura di fiducia verso le persone impensabile per come si era presentato all’ingresso nella scuola primaria: «Maestra Emilia – ha detto una sua compagna -, ma Ale è sempre contento! Sorride sempre!». E infatti, come scrive Emilia Gibelli: «La persona non è mai riducibile a quello che è in grado di fare, ma nemmeno a un test, diagnosi, analisi, relazioni, giudizi, voti… È molto di più, sfugge a qualsiasi schema e definizione. Ogni persona è sorprendente, è un mistero, grande, unico e irripetibile. Ogni persona avrebbe potuto non esserci e invece c’è. È come se fosse stata “salvata da un naufragio, ripescata dal nulla all’esistenza”. Come scriveva Chesterton nel libro Ortodossia» (p. 72).

Dentro a un apparente rifiuto, ogni bambino con autismo manifesta un grande bisogno, che Ale giunse perfino a esprimere, di essere guardato e abbracciato, e quando questo accade, ci dice Emilia, in un tempo che è solo suo, il bambino fiorisce. Emilia ha imparato – e ci ha descritto come – a saper aspettare con pazienza, a partire sempre dal positivo, ad accogliere la fragilità propria e dell’altro, a vivere l’insegnamento sempre dentro a una vicinanza affettiva, ad avere coraggio e tenacia, a sperimentare strade sempre nuove, insomma a nutrirsi di speranza che permette ogni giorno di ricominciare. Ma l’ultima parola su questo affascinante percorso, Emilia l’ha lasciata ad Ale, che un giorno, mentre esplorava i toni bassi del pianoforte, ha inventato questa sua storia: «C’era una volta un dragone enorme. Il dragone era molto triste e nervoso. Il dragone era arrabbiato moltissimo. Correva nell’erba alta. Alla fine ha sorriso».

Giorgio Cavalli

Il libro: Emilia Gibelli, La scuola è qualcuno che ti aspetta. Insegnare a leggere e a scrivere a un bambino con autismo. Appunti di una grande avventura umana e professionale, Ed. Bookabook, 2022.