
Una giornata di bellezza e gratitudine
Sabato 17 maggio il gruppo affido di Milano ha vissuto una giornata straordinaria a Casa San Giuseppe, realtà afferente a Dimore per l’Accoglienza e gestita dalle famiglie Barraco e Manna.
La mattina si è svolta la chiusura del corso sull’affidamento familiare, presenti sei famiglie che hanno partecipato ai cinque moduli del percorso e che hanno avuto l’opportunità di ascoltare Marco, Gimmy, Lorenzo e Miriam. Un fiume di certezza, permessa dal tempo e dal fiore dal seme piantato.
«La prima accoglienza – dice Marco -, è di noi a noi stessi, è il compimento della nostra umanità, un’avventura in cui non siamo lasciati soli».
Gimmy parla di una novità nella vita iniziata quarant’anni fa e dell’esperienza di condividere il cammino con gente lieta. “«C’è un seme che viene messo nella vita e che racchiude il mistero del dolore e il mistero del bene». Racconta dei tanti affidi e dice che «è una storia che non finisce mai, anche quando rientrano a casa loro. E non finisce anche quando sembra che non si accorgano: come quel ragazzo in apparenza sempre infastidito dalla prossimità dei rapporti che risponde invece ad un sms: ‘Apprezzo, anche se non sembra, che mi pensiate’».
«Ma c’è un rischio -continua Gimmy – anche nell’accoglienza: la solitudine. Il viverla, in fondo, a porte chiuse. E allora la domanda che sorge è: qual è la tenuta della famiglia? Chi ce lo fa fare?».
«L’esperienza di essere accolti è l’esperienza di essere abbracciati – dice Marco – è un’esperienza di perdono». L’affido, continua Marco, ha dentro una vertigine. Dentro a una condizione di provvisorietà si gioca la totalità della famiglia. Ciò che è chiesto è una gratuità totale, che sembra provvisoria, ma ontologicamente non finirà mai e segna la vita. Per questo, dice Gimmy, è un cammino da condividere, da vivere insieme, accompagnati. Questo purifica lo sguardo, è una consegna quotidiana. Ci ricorda che bisogna entrare in punta di piedi nelle situazioni di questi figli, che hanno pensieri che mai ci immagineremmo. E in questo cammino, ogni gesto ha un valore grande: un pranzo, del tempo dedicato, tutto assume dignità.
Ci soffermiamo nel dialogo con loro, sull’aspetto dell’amicizia coniugale e del rapporto con i figli naturali. L’accoglienza, dicono entrambi, è decisa dagli adulti e poi proposta ai figli. Spesso ci diciamo: gli abbiamo fatto fare una bella fatica! Ma non li abbiamo ‘rovinati’, dice Gimmy.
«L’accoglienza dell’altro è qualcosa che ti sposta, è una esperienza privilegiata, un dono con un sacrificio dentro. È un dono per la propria vocazione coniugale – dice Marco -. Di solito davanti alla proposta di accoglienza si parte dal suggerimento della moglie, ma poi interviene l’aspetto dell’equilibrio che è più un elemento paterno», concordano entrambi.
Poi è il turno di Lorenzo che aiuta ad addentrarci nella natura della associazione e rilancia lo sguardo sul fattore di libertà delle famiglie, che si accompagnano e verificano insieme la convenienza della accoglienza nella loro vocazione matrimoniale. Racconta dei momenti di condivisione della associazione, degli strumenti. Ma è incredibile quando racconta di sé e della sua storia di padre adottivo, di come abbia cambiato il suo approccio con la vita, educandolo ad un dominio di sé. Lorenzo dice che ha imparato a guardare l’altro e comprendere che è un dono, al di là del “rendimento”. Questo suo approccio alla vita ha impattato anche il luogo di lavoro.
Le famiglie del corso sono state molto grate di questo percorso insieme ed è stato evidente, come ha detto una giovane partecipante Elisa, che «anche se alcuni dubbi rimangono e le domande sono aumentate, quello che mi determina ora è l’impressione di essere chiamata a questo luogo, è il desiderio di non ignorare questa commozione del cuore. Tutta la somma delle perplessità, non rende il passo incerto del desiderio di fare questo cammino».
Ha colpito infine il racconto di Andrea, il marito di Elisa che racconta di come anni fa hanno abbellito e sistemato la tomba di un piccolo bimbo, mancato nella comunità dove lavora la moglie. La grande commozione è stata sentire come sulla tomba abbiano posto al centro il fiorellino che la mamma del piccolo aveva lasciato – la mamma che poi era fuggita di fronte a questo lutto immenso. Eppure aveva messo un fiore e dentro quel fiore c’era tutto il suo grido.
Questa custodia, questa stima del grido pur confuso di una madre è ciò a cui siamo chiamati, e solo insieme ne possiamo essere capaci.
Dopo il pranzo in condivisione c’è stata la breve testimonianza delle due famiglie di Casa San Giuseppe, che hanno raccontato di come vivono insieme, di cosa li ha portati a costruire una “dimora”, di come sono testimoni uno all’altro.
Infine nel pomeriggio ci ha raggiunto tutto il gruppo affido e, condotti da Alda Vanoni, prima presidente dell’associazione, abbiamo visto insieme il documentario su Novella Scardovi: di nuovo è stato un fiume in piena di fecondità e umanità. Ne è seguito quindi un dialogo intenso e un racconto di famiglie affidatarie che, anche nella difficoltà di alcuni affidi, testimoniano la convenienza di questa esperienza; pur nel dolore della separazione dai figli accolti che rientrano, sperimentano una letizia prima sconosciuta. Marco, papà adottivo e affidatario, ha detto: «Questo affido sulla carta non sta insieme, questo figlio è evidente che non vuole stare con noi, eppure tutto ciò non determina quello che io sento, che è invece un attaccamento a questo luogo e una gratitudine».
È stata una giornata di rara bellezza, in cui ho compreso la grande fortuna di stare dentro questa storia, e quale impatto anche culturale possa avere sul mondo, per la possibilità di guardare ai figli accolti e naturali con libertà, senza essere ricattati dall’esito, che chiede la mentalità dominante e che spesso chiediamo anche noi.
Maria Elena