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Marina: “Volevo adottare ma anche io respingevo un bambino che nessuno voleva”

Marina Ricci ha incontrato Famiglie per l’Accoglienza a Trivolzio (PV) lo scorso 17 novembre. Una testimonianza ricca ed emozionante. Qui alcuni appunti.

Sono stata mandata a Calcutta dal mio direttore per seguire la malattia di Madre Teresa. Ho assistito alla vita in strada delle persone, vedevo la povertà. Camminavo non toccando nulla e non volendo essere toccata.

Poi una suora mi ha detto: “Qui deve esserci qualcosa di buono per te”. Per me è stata la storia di una possibilità prima ancora che una storia di una adozione. Ho visitato l’orfanotrofio, ho visto quei bambini. Ho desiderato adottare un quinto figlio. La sera al telefono l’ho detto a mio marito. A Calcutta non ci sono divani per le teorie, quei momenti in cui pensi e rimugini sul cosa sarebbe giusto fare e cosa no. La realtà prende il sopravvento.

Mio marito mi ha detto che se pensavo fosse una cosa buona per noi, potevamo pensarci. Con entusiasmo l’ho detto alla suora la quale mi ha risposto che non avevano bisogno di famiglie disponibili ad adottare, avevano la fila di genitori disponibili. Quando ha saputo che avevo quattro figli, mi ha detto che il Signore mi stava chiedendo di prenderne uno che nessuno voleva. Respingevo quella proposta. Mi sono vergognata di scoprirmi non generosa, mi veniva l’amaro di una vita che si stava restringendo, nonostante tutta la vita a posto. In quel momento storico, ero in quel limbo in cui non si è ne atei ne cristiani. Mi accorgevo che la vita si ingrigiva.

Quella suora che mi guardava era come se mi scavasse dentro. Mi ha portato da quel bimbo che avevo visto il giorno prima, me lo ha messo in braccio e l’ho restituito subito. Ho cercato conforto in mio marito, cercando conferma del fatto che non era pensabile accettare quella proposta, ma lui lasciava aperta la possibilità.  Mi era arrivato tutto come un agguato. Ero là per un altro motivo.

Quando la suora ha visto che piangevo, ha capito che piangevo per Gesù, che avevo perduto nella mia vita. Mi dovevo confessare. Dopo tutto quel tempo? Mi disse che avrebbe trovato un prete che parlasse italiano. Il giorno dopo ritrovai la suora che mi aspettava sulla porta. Mi confessai. Un fiume di lacrime. Mi è stato chiesto: “Quanto hai amato Gesù per piangere così?”. Era chiaro per me che quella adozione era riabbracciare Gesù.

I parenti e amici ci dicevano pazzi per il peso che avremmo dato ai figli. Ma loro non sapevano ancora che mi era stato chiesto da Lui. Se Dio chiede una cosa, dà anche la forza per affrontarla. Alla fine abbiamo adottato Govindo, non camminava, spastico, microcefalo e con le ferite dell’abbandono. Ho scritto il libro innanzitutto per me, per non dimenticare. Avvertivo che quella storia era straordinaria. Posso dire che è stata una storia con lieto fine, un giogo lieve. Dio sapeva che ero poveretta e non mi ha chiesto più di tanto. Ho fatto scrivere ai miei figli cosa era stato per loro. Hanno scritto che Govindo era la bussola della loro vita. Che il suo silenzio conteneva tutti gli alfabeti del mondo.

Non sono diventata più buona. C’è però una differenza, quando la vita è attraversata da una possibilità. La storia è tutta qua, un po’ banale, ma per me grande perché la mia storia.

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