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La testimonianza di Natascia e Giuseppe alla giornata delle famiglie venete

Domenica 1 febbraio, giornata di incontro delle famiglie dell’Associazione del Veneto. In oltre cento si ritrovano a Padova, nella sede delle Scuole Romano Bruni (nella foto). Il titolo dell’incontro è “Sei tu che aspettavo!”

«poloIl desiderio», racconta Marco Mazzi, «è aiutarci a riconoscere il valore della persona che accogliamo, un valore così grande che ci aiuta a vivere con più intensità, fino a riconoscere che è qualcosa che la nostra vita attendeva, magari senza saperlo».

Silicio Rosteghin, vicepresidente dell’associazione veneta, introduce l’incontro ricordando che «non siamo specialisti dell’accoglienza, ma portiamo uno sguardo che valorizza l’umano». «Siamo in cammino», aggiunge, «un cammino fatto di paziente attesa nell’accoglienza e nell’amore alla libertà dell’altro, pieno di certezza che Colui che ci ha messo in questa avventura, la porterà a compimento».

La domenica coincide con la Giornata della Vita e la testimonianza di Natascia, ricca e commovente, parla proprio di accoglienza della vita nascente. «Prima del mio quarto figlio», racconta, «vivevo in modo “ridotto”: casa, lavoro, figli, marito… la vita era un incastro di tante cose». Natascia però non era contenta. «L’arrivo di questo bambino ha rimesso in ordine la mia vita, ha rimesso a posto le cose, ha rimesso al centro l’essenziale. Ho ripreso il rapporto con mio marito, il gusto del lavoro, tutte le circostanze sono diventate interessanti. Mi ha insegnato che la realtà è nelle mani del Signore e che mi posso fidare».

«Avevo già perso una bambina alla nascita», prosegue il racconto, «e davanti all’ecografia che documentava una nuova malformazione il dolore è stato immenso. Avevo paura, ero tormentata, ma un amico medico mi ha detto che il bambino c’era, era dentro la pancia e lì stava bene. E il mio vescovo (l’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra ndr) è stato come un padre, da subito l’ha amato come un dono, un dono che veniva fatto a me. Ho pregato la Madonna perché non volevo solo accettarlo, volevo amarlo. E così è accaduto».
Nelle diciannove ore della sua vita, in un ospedale dominato dalla cultura dello scarto, per usare l’espressione di papa Francesco, «quel bambino ha mostrato a tutti che era un bambino vero, che aveva due genitori felici di averlo, che era un bambino amato. E non è questo che ognuno desidera? Non è questa la vera vittoria sulla morte?».

L’accoglienza è fatta anche di quotidianità. Ovvero di tempo. «Un tempo nel quale la persona che abbiamo preso in casa mostra tutta la sua diversità. Ma la pedagogia del Signore nella nostra vita sfida gli anni». Così Giuseppe racconta del ragazzo con un’importante disabilità accolto all’età di dieci anni. Ora ne ha oltre quaranta. «Tutta la nostra esperienza si è sviluppata aderendo a quello che accadeva: l’incontro con lui in istituto, il nostro matrimonio, le prime timide accoglienze del fine settimana, l’attaccamento che cresceva, l’accoglierlo per sempre. È stato tutto un sì alle evidenze che man mano emergevano».

La sua testimonianza tocca punti cruciali per ogni accoglienza segnata dalla diversità. «Ho scoperto che il bisogno non definisce la persona. Io non sono la risposta al bisogno più grande di mio figlio, solo il Mistero che lo ha creato e che continuamente lo fa è questa risposta. Per lui come per me». Fondamentale è non restare soli. Racconta Giuseppe: «Nell’avventura dell’accoglienza io sono stato accolto e riaccolto dagli amici con fedeltà e tenacia commovente e così ho fatto memoria che sono fatto e voluto. Solo così ho potuto ogni volta ripartire».

La giornata si è conclusa con la celebrazione della santa Messa e con il pranzo in comune.