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Marco Mazzi: Affido, un percorso che va accompagnato con un cammino in rete

«La scelta dei servizi sociali? Intervenire solo sulle urgenze. Così si escludono le famiglie»

Luciano Moia ha sviluppato un’inchiesta sull’affido ed intervistato Marco Mazzi su questo tema.
L’intervista è stata pubblicata domenica 29 marzo 2015 sulle pagine di’Avvenire a corredo di questo articolo:
Minori in difficoltà, l’affido sta morendo

Il numero di affidi è in calo, ma le fragilità delle famiglie sono in rapidissimo aumento. «C’è una situazione sociale che
sembra congegnata apposta per triturare le famiglie. Al di là del mio impegno associativo – osserva Marco Mazzi, presidente di Famiglie per l’accoglienza – sono pediatra e mi confronto ogni giorno con i problemi familiari: ritmi di lavoro insostenibili, rapporti precari, egocentrismi, difficoltà ad assumersi responsabilità stabili. E questi bisogni aumenteranno ancora».

Come conciliare allora la necessità di aiutare i minori con il calo degli affidi?
Bisogna considerare che l’affido rimane una scelta coinvolgente ma impegnativa. Chi sceglie di aprirsi all’affido
familiare compie un’azione di straordinaria valenza sociale e umana, ma certo accetta qualche rischio. Ecco perché
queste famiglie generose non vanno lasciate sole. È un percorso che va accompagnato con un cammino in rete, valorizzando il ruolo dell’associazionismo familiare.

E questo non avviene?
Diciamo che non avviene ovunque. Ci sono servizi sociali di alcune aree geografiche con cui si lavora molto bene. E altri che invece non sostengono adeguatamente il lavoro delle associazioni, come pure indicherebbero le linee guida della legge sull’affido.

Perché questo elevato ricorso alle comunità educative?
È una via più semplice, meno impegnativa per i servizi sociali. Il coinvolgimento dell’associazione familiare impone alle istituzioni di aprire un dialogo. E questo chiede tempo e risorse. Ma se non si punta sulle famiglie la cultura della solidarietà arretra.

Ma, parlando di risorse, il ricorso alle comunità educative non comporta per i Comuni un esborso superiore rispetto all’affido familiare?
Certo, un bambino in comunità costa al Comune, o ai consorzi comunali, da 50 a 90 euro al giorno, in base alle scelte delle varie Regioni. Le famiglie affidatarie invece percepiscono spesso solo il rimborso minimo previsto, 450 euro mensili.

Perché allora non si punta con maggiorconvinzione sull’affido?
Perché i servizi sociali sono al lumicino e fanno sempre meno prevenzione. Si interviene solo sulle urgenze, sulle situazioni molto problematiche che richiedono conoscenze specifiche, dal punto di vista educativo e psicologico.
E se si impone un sostegno di tipo “professionale” la famiglia rischia di essere esclusa… È inevitabile. Non si possono
infliggere a una famiglia casi complicatissimi. Ma in questo modo rimangono ai margini tutti i casi ordinari, gli affidi diurni, cioè quell’attività “ordinaria” che rappresentava la maggior parte degli interventi. Purtroppo, questa scelta rischia di escludere la prevenzione. E questo, tra qualche anno, comporterà spese ancora più elevate.

Si tratta di un’emergenza generalizzata?
Ma no, ci sono regioni come Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia, dove le cose continuano a funzionare bene, dove le buone pratiche vengono valorizzate. Altrove invece il ruolo delle associazioni rimane marginale. E si tratta di decisioni che danneggiano tutti, bambini, famiglie, ma anche istituzioni.

Da dove nascono scelte simili?
Pesano retaggi culturali duri a morire. In alcune zone d’Italia si pensa che il pubblico sia sempre e comunque meglio del privato sociale.