Vivendo e testimoniando: la forza di un’esperienza. Editoriale di Marco Mazzi
“L’accoglienza è l’abbraccio del diverso e questo vale per tutti i rapporti. L’abbraccio del diverso si chiama perdono, perché per abbracciare un diverso bisogna prima perdonarlo, cioè affermare sotto tutto il cascame ciò che di vero e di giusto, di buono e di bello, di essere c’è nell’altro: l’essere dell’altro”. Sono parole di mons. Luigi Giussani, che tanto ci ha testimoniato e accompagnato nella nostra esperienza e che ci hanno commosso.
Parole vere che ci hanno accompagnato e sono diventate giorno dopo giorno più nostre nei gesti che abbiamo vissuto. Parole che ancora fanno vibrare il cuore. Come qualche giorno fa ascoltando la testimonianza di Enrico. Un lavoro di prestigio, una moglie con cui vivere un’ intesa piena, e poi l’attesa più bella, diventare padre. Nascono due gemelli che da subito sono diversi, segnati da handicap importanti.
Enrico racconta: “Per quattro anni ho vissuto arrabbiato e chiuso, fino a respingerli; poi un giorno ho incrociato lo sguardo di mia moglie su di loro, era diverso dal mio, era grato, era lieto. Ho cominciato a desiderare anch’io quello sguardo; piano piano, soprattutto grazie a lei e a tanti incontri e amici, sono cambiato. È accaduto che con loro c’era qualcosa che rendeva bella la vita”.
Chi non vorrebbe uno sguardo così sulla realtà? Eppure quanta paura e rifiuto nell’immedesimarsi con l’inizio di quella storia! È il paradosso in cui tante volte la realtà ci mette: la differenza, l’imprevisto, la drammaticità che ci spiazza e da cui vorremmo fuggire, da cui ci difendiamo. Poi, quasi stranamente, inaspettatamente, passando per la strada dell’accoglienza e dell’adesione umile e ferma, diventano occasione di una crescita: l’esperienza cambia, noi cambiamo. Perché accada occorre un lavoro, una compagnia, una continua educazione per non ridurre tutto a uno sforzo, a una capacità, a una misura.
Diceva un amico all’ultima assemblea, quasi con un grido dentro: “Quante volte mi chiedo chi me l’ha fatto fare di accogliere, eppure io devo imparare ad abbracciare mio figlio e per impararlo devo stare qui”. E un altro: “Nell’affido mi sono scoperto un poveraccio, a volte così arrabbiato da dire: abbiamo sbagliato! Invece quel bambino ha portato l’evidenza che anch’ io avevo bisogno di essere salvato”.
Diversità, abbraccio, cambiamento. Tre momenti che tutti abbiamo in qualche modo sperimentato. Quante volte, commossi e grati, abbiamo goduto nel vedere una storia che si andava compiendo, un figlio accolto che dopo averci fatto tanto penare trovava la sua strada, magari sposandosi e diventando a sua volta padre (come mi è accaduto di vedere in questi giorni). Un bambino che tornava felicemente nella sua famiglia d’origine. Oppure il nostro cambiamento, un modo nuovo di amare le circostanze in cui siamo a partire dalla mattina del lunedì: un’esperienza di intensità e gusto che entra nelle “solite” giornate, nei “soliti” rapporti.
L’accoglienza della realtà ci sfida, ci educa, ci cambia. Perché questo accada ci vuole una persona che si lasci attrarre e non lasci cadere la domanda del suo cuore che desidera l’infinito, la verità, il bene. Ci raccontava un amico: “Dopo un affido durato anni il bambino è andato in adozione e mia moglie ha sussurrato: ora ci è chiesto solo il nostro sì. Così sul lavoro ho cominciato ad offrire il mio aiuto e la mia attenzione proprio al collega più antipatico , emarginato da tutti e mi sono stupito di me stesso: ma dove ho imparato un commozione così per chi mi sta accanto?”.
L’esperienza ci rende più consapevoli, più grati, più liberi. L’esperienza, cioè vivere riconoscendo il valore, giudicando quello che corrisponde alle nostre attese, al nostro desiderio profondo, al nostro cuore. “Per anni sono scappata da chi mi amava – raccontava una giovane ragazza madre spagnola –, ero giovane, incinta, confusa, ma quell’abbraccio non lo sopportavo, non lo meritavo, mi spiazzava. Poi per grazia ho ceduto, sono andata a cercare chi me lo aveva offerto e ora sono qui, nella casa della Masia, ad aiutare altre che vivono quello che io ho vissuto”.
Fatti, non ragionamenti o analisi. Persone in gioco, non eroi. La cosa più grande e preziosa che portiamo nel mondo è questo cambiamento di noi, passato attraverso la vertigine e la fatica delle circostanze, anche diverse e dolorose; passato attraverso la nostra adesione, il nostro sì, la nostra tenace affermazione del bene, della positività della realtà, del mistero infinito che è in ogni uomo; passato attraverso il perdono della diversità.
Il primo giorno del nostro seminario nazionale annuale è coinciso con gli attentati di Parigi. Un’esplosione di violenza, di divisione, di disumanità. La punta di un iceberg che ha coinvolto persone cresciute tra noi in una logica di morte con la scusa della religione. Ma alla base dell’iceberg c’è una dissoluzione dell’umano che tutti respiriamo, una solitudine, una relativizzazione, un vuoto, in cui tutti siamo immersi e a volte complici.
Come si fa a vivere? Dov’è la luce? Dove la speranza? “Se vedi il buio, non denunciare il buio, accendi un lume” scriveva un saggio antico. Ci ha testimoniato Enrico, l’amico con due figli con handicap: “Proprio il buio che vivevo mi ha spinto a riconoscere anche i più piccoli segni di luce, perché più uno ha una domanda aperta e più è attento ad incrociare una risposta”.
Di fronte a una realtà così difficile e dolorosa che ci sfida, quello che portiamo, quello che viviamo, sembra poca cosa. Ma l’esperienza che ha cambiato il nostro cuore, il nostro vivere quotidiano, il nostro giudizio su ciò che vale; l’esperienza che ci ha fatto abbracciare, amare, accompagnare tante persone nel bisogno; l’esperienza che ci ha messi in moto in una amicizia operosa, questa esperienza è lì viva in noi e tra noi, e in molti altri e non la si può cancellare.
Ha detto il Papa a Firenze alla Chiesa Italiana: “Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”.
Quale allora il nostro compito di Famiglie per l’Accoglienza? Guardare la profondità di questo per, che contiene il desiderio di costruire, di incontrare, di servire la positività che Chi ci ha creato ha posto in ogni circostanza, in ogni incontro, in ogni persona. “Vivendo e testimoniando”. Passa da questi due verbi il contributo che possiamo portare per il bene di tutti, a partire da chi accogliamo: la forza di un’esperienza, che non si può solo analizzare e interpretare, misurare e utilizzare, ma soprattutto va guardata, ascoltata, amata, sostenuta, compresa nelle sue ragioni ultime.
Vivendo e testimoniando: la forza di un’esperienza.
Marco Mazzi
Dicembre 2015