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Un posto in casa e nel cuore, due esperienze di accoglienza famigliare.

Un posto in casa e nel cuore, due esperienze di accoglienza famigliare.
L’invito del Papa a «scoprire che quel povero è Gesù». Ecco da dove può nascere l’ospitalità a stranieri in fuga dal loro Paese.

Due lettere pubblicate su Clonline il 06.07.2018

Claudio e Laura: “Nel giugno del 2016 un avviso dell’associazione Famiglie per l’Accoglienza segnalava la possibilità di accogliere migranti. A ottobre 2016 si sarebbe sposato il nostro ultimo figlio, per cui avremmo avuto la casa vuota. Abbiamo detto di sì per questi motivi: innanzitutto la stima e la conoscenza sia dell’Associazione che di Avsi; il desiderio di capire qualcosa di più di questo fenomeno che è epocale e di cui non si può non essere coscienti; infine decisiva è stata l’indicazione che noi abbiamo colto nella lettera del Papa a Julián Carrón al termine del Giubileo della Misericordia in cui era proposto un cammino di povertà, cioè andare verso il povero «non perché sappiamo già che è Gesù, ma per tornare a scoprire che quel povero è Gesù». Abbiamo pensato che questa accoglienza era un’occasione per andare a fondo di questo.

Avevamo dato la disponibilità preferibilmente per una mamma con un bambino perché siamo spesso fuori casa e ci sembrava più facile rispetto ad un ragazzo. Ci è stata fatta la proposta di accogliere una giovane famiglia, M., 22 anni, sua moglie di 20 e la loro bambina di 8 mesi nata a Milano. È stato l’incontro con una diversità enorme, in tutti i sensi, soprattutto nelle abitudini alimentari e nella percezione del tempo.

Ci hanno confidato alcune vicissitudini anche abbastanza forti, poco per volta siamo venuti a sapere qualcosa delle loro famiglie, di una zia, di un fratello e di una sorella. È stata una disponibilità continua all’imprevisto. A volte anche commovente, come quando è mancato mio fratello e M. ha voluto partecipare al funerale e restare con me al cimitero sino alla fine, o quando tornando da messa alla domenica lo trovavamo impegnato a lavare i pavimenti di tutta la casa.

Abbiamo fatto con loro due gite e M. è rimasto affascinato dalla bellezza che vedeva. Un’altra cosa che mi ha colpito è come lui e i suoi amici, che sono venuti spesso a trovarlo a casa nostra, rispetto alla scuola, hanno saputo riconoscere chi insegna loro l’italiano per dovere o per soldi e chi lo fa per passione. È un giudizio che scatta immediatamente e che loro colgono con una precisione assoluta.

Il giorno dell’addio era il compleanno di M., in pieno Ramadan. Quella sera abbiamo cenato tardi e sono venuti cinque suoi amici, insieme a una famiglia della nostra Fraternità. Durante la serata siamo arrivati a parlare dei Promessi Sposi, perché uno di loro, in Italia da due anni, voleva capire di più di questa storia di cui aveva sentito parlare a scuola. Ci siamo accorti di quanto Manzoni descriva il loro cuore, la loro vita: il senso di ingiustizia, la necessità di fuggire, la rottura dei rapporti con le persone che ti sono care.

L’inizio di questa esperienza di accoglienza per me è stato un’esplosione di corrispondenza: io non ho mai sentito le parole e le preghiere della liturgia quotidiana così vicine e così descriventi la mia vita, il mio bisogno, le mie necessità, i miei desideri. Poi, e fa parte dell’esperienza della povertà, tutta questa tensione iniziale si è un po’ “sporcata” di abitudine, per cui mi rimane il desiderio che questa cosa possa riaccadere continuamente.

Si parla sempre di “integrazione”, che mi sembra parola piuttosto brutta, mentre l’esperienza fatta dice una cosa molto più semplice: aprire la propria casa a uno “straniero” vuol dire fargli posto nel nostro cuore e fare insieme un pezzo di strada per cui diventa ‘prossimo’ “.

Laura e Michele: “Io e mio marito Michele con i nostri cinque figli, stiamo accogliendo O., un ragazzo di 20 anni proveniente dal Senegal con alle spalle una storia pesantissima: ha perso i genitori, è stato picchiato, schiavizzato, infine è arrivato su un barcone in Italia. Anche noi avevamo ascoltato l’invito del Papa ad aprire la propria casa a queste persone, ma la decisione è maturata grazie a un nostro amico americano che, leggendo sui giornali quello che stava succedendo in Europa, chiedeva a noi come potesse aiutarci a far fronte a questo bisogno, mentre noi non avevamo pensato che quel che stava accadendo potesse riguardarci in prima persona. Per cui abbiamo detto sì a questo percorso di preparazione, che è durato quasi un anno.

Il progetto “Rifugiato in famiglia” del Comune di Milano aveva come obiettivo quello di far sì che il passaggio attraverso una famiglia potesse dare in mano a questi giovani degli strumenti per poter affrontare meglio la vita sociale. Posso dire che questo in O. è accaduto e sta accadendo. Innanzitutto perché lo vediamo maturare nel senso che sta imparando ad avere a che fare con altre persone. Inizia a scegliere con criteri nuovi e più maturi, per esempio decidere per un tirocinio come aiuto cuoco pagato di meno, ma in cui può imparare di più. Sta imparando a gestire in modo più maturo certe reazioni istintive di fronte alle criticità della vita: più volte è stato accompagnato di peso al lavoro da mio marito perché aveva litigato con lo chef e avrebbe voluto stare a casa. Lo abbiamo aiutato a capire che in ballo c’è la prospettiva di un futuro.

Ma la domanda più interessante è: ma noi che cosa ne abbiamo guadagnato? Ci ha fatto prendere coscienza che essere nati e cresciuti in un Paese libero e stabile non è stata una scelta nostra, ma una preferenza di cui siamo oggetto. La seconda cosa è stato il sorprendente rapporto di stima con gli operatori di “Farsi prossimo”, che è stata realmente una ricchezza umana inaspettata e incredibile. Poi è stato di grande aiuto la compagnia con le altre famiglie con cui abbiamo condiviso questa esperienza. Ci siamo trovati in cammino con queste famiglie che non conoscevamo, ma che per noi sono diventate delle persone da guardare.

Questa esperienza ha contagiato anche le persone sul luogo di lavoro: lo chef, un ragazzo di 25 anni, con cui O. lavora, è rimasto molto colpito da noi tanto che, probabilmente, alla fine di questo periodo di accoglienza a casa nostra, O. potrà andare a condividere l’appartamento con lui e altri colleghi.

Rispetto alle ospitalità precedenti, in questa esperienza si è giocato un rapporto di paternità-figliolanza, che necessitava comunque l’introdursi di una distanza e rispetto di libertà tra noi e lui, che ci aiuta anche a riportarci continuamente in una posizione più vera con i nostri figli”.